di Guido Talarico
Il fascino indiscreto della rivoluzione miete vittime da decenni. Che fosse l’esplosivo compagno Molotov o il “poderoso” Che Guevara, il mito del rivoluzionario, dell’eroe duro e puro che si immola contro le tirannie in difesa del popolo sovrano, è sempre piaciuto. E’ stata una inclinazione soprattutto di quegli intellettuali un pò “gauche caviar”, che per decenni hanno dettato la linea della narrativa progressista in difesa dei “lider maximo” di tutto il mondo. Ma poi le cose sono cambiate. La caduta dei muri e la rilettura senza filtri ideologici ha aiutato a capire che non tutti “gli eroi sono giovani e belli” e soprattutto si è accertato che non sempre e non tutti i “barbutos” erano dalla parte della ragione. Si è capito ad esempio che il compagno Stalin non era poi quel che si dice un democratico, che Pol Pot era si un maestro ma di genocidi e che Fidel Casto aveva uno spirito umanitario che faceva il pari con quello di Gilles de Rais.
Tuttavia quel fascino ancora permane. Di tanto in tanto, soprattutto da quelle parti del mondo che non sono esattamente sotto casa nostra, arrivano cronache che indulgono nella glorificazione dell’ultimo rivoluzionario. Articolesse con verità precostituite che in taluni casi nascono per vanagloria, dove si magnifica le gesta dell’ultimo presunto rivoluzionario per magnificare se stessi, in altri, e sono la maggior parte, per interesse politici e più spesso economici. Altre volte ancora per ignoranza.
L’ultima narrativa di questo genere è quella che una certa stampa continentale ha dedicato ai tigrini, una minoranza etnica che vive in un territorio ai confini tra Etiopia ed Eritrea, nel mezzo del Corno d’Africa. Etnia che tra gli altri ha dato alla luce anche l’attuale direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Quel Tedros Adhanom Ghebreyesus eletto grazie ai cinesi, che in questa crisi pandemica da Coronavirus ha ben trovato il modo di ricambiare la cortesia dei suoi grandi elettori. Adesso questo signore, che è legato ai tigrini del TPLF, utilizzando il suo ruolo nell’OMS cerca di salvare i suoi compagni paventando un imminente crisi umanitaria. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo a noi, cioè alla cattiva propaganda. Molti organi d’informazione, alcuni anche molto autorevoli, descrivono i tigrini con la stessa enfasi che si riserva a popoli oppressi o a vittime eccellenti della storia. In alcuni casi addirittura abbiamo letto epiche narrazioni delle loro gesta, come fossero liberatori di popoli e non gli oppressori che in realtà sono. Le cose nella realtà sono ben diverse da quelle che raccomanda la pubblicistica internazionale prevalente e ora proverò a spiegare perché si è arrivati a questo travisamento dei fatti. Ma occorre fare una premessa che è necessaria per capire come mai una fetta così cospicua della stampa internazionale continui a dare voce ad una narrazione così smaccatamente falsa.
La premessa viene dalla storia recente di questa area geografica dell’Africa, la stessa, per intenderci, dove 200.000 anni fa apparve quell’homo sapiens padre di tutti noi. La storia recente dell’Etiopia dice infatti che la minoranza tigrina alla caduta del Derg, la sanguinosa dittatura di Menghistu ribattezzata “terrore rosso”, prese a sorpresa il potere ad Addis Abeba sostenuta e guidata dai vecchi compagni di lotta eritrei che furono determinanti nella sconfitta di Mengistu e nella presa di potere dei tigrini in Etiopia. Ma la riconoscenza, si sa, non è di questo mondo. Così i tigrini del TPLF tradendo le promesse e le aspettative di mantenere una Etiopia unita e inclusiva, si rivoltarono contro i loro benefattori eritrei emarginando le etnie più numerose dell’Etiopia, quelle degli Oromo e degli Amara.
Iniziò una fase dittatoriale che il tigrino Meles Zenawi, divenuto premier, ha tenuto per ben 18 anni, grazie alle brutali soppressioni di ogni libertà di cui è stato capace e grazie al sostegno del blocco atlantico. La narrativa epica a favore dell’Etiopia e del suo leader Meles nasce da qui. Stati Uniti ed Europa, felici per la scomparsa del Derg, non volevano altre noie in quell’area e Meles ai loro occhi appariva come un partner affidabile e gestibile. Anche perché nel frattempo Meles aveva dichiarato guerra all’Eritrea promettendo agli alleati la nascita della Grande Etiopia e la stabilità nell’intera area. Per questi vent’anni dunque la macchina propagandistica dell’occidente ha descritto il regime di Meles come una democrazia accettabile e l’Eritrea e la Somalia come paesi in mano a terroristi e dittatori. Venti anni di grancassa e di giochi sporchi, tutti volti a discredito di Asmara, nella certezza che prima o poi anche i coriacei eritrei (che sono sei milioni) avrebbero ceduto alla forza degli etiopici (che sono 95milioni).
Come sappiamo le cose non sono andate così. L’Eritrea ha retto all’invasione, ha retto alla mancanza del rispetto degli accordi di Pace di Algeri da parte del governo tigrino di Addis Abeba e ha retto anche ad una campagna di diffamazione internazionale durata venti anni. Non solo. Ad un certo punto Oromo e Amara hanno cominciato ad averne abbastanza della prepotenza sanguinaria della minoranza tigrina e, soprattutto, di avere qualcuno che brutalmente comandava a casa loro. Così, anno dopo anno, la protesta si è allargata fino ad arrivare alla capitale e fino a costringere Hailé Mariam Desalegn, diventato premier nel 2018 alla morte di Meles, alle dimissioni.
E siamo alla storia recentissima. Pochi giorni dopo le dimissioni di Desalegn è salito al poter Abiy Ahmed Ali (in basso a ds), giovane e promettente politico di etnia Oromo. Una svolta epocale. In pochi mesi il neopremier ha fatto una pace reale con il Governo Eritreo e stretto un’alleanza costruttiva con Isaias Afewerki, padre dell’Eritrea (a sin.) e, lui si, un vero rivoluzionario. Nel giro di pochi mesi ha dato una svolta così radicale all’intero Corno d’Africa da essere subito nominato vincitore del Premio Nobel per la Pace 2019. Riconoscimento che ha subito voluto condividere moralmente proprio con Afewerki. Per i tigrini, che tutt’ora controllano pezzi importanti dell’economia etiopica e anche parte dell’esercito, è stata una sconfitta così bruciante da costringerli a gesti estremi, per alcuni versi inconsulti, come l’insurrezione armata contro il Governo di Abiy che, inevitabilmente, ha portato alla guerra lampo di questi giorni. Un conflitto che ha per teatro proprio casa loro, il Tigray.La storia ha così rimesso le cose al proprio posto. Ha dato ruolo a chi lo meritava, speranza e futuro a chi per una vita ha combattuto per il benessere della propria gente. E’ stato un percorso difficile che ha lasciato sul campo migliaia di morti, privato intere generazioni di quella tranquillità e prosperità che soltanto la pace può consentire. Ma alla fine tutto è andato come doveva andare con i buoni, quelli veri, finalmente al potere.
Eppure, come dicevamo all’inizio, un certo giornalismo rimane ancora strumento e vittima di una narrativa orientata da interessi. Interessi che oggi forse non sono più neppure in campo. E questo introduce il tema vero del prossimo futuro. Come farà l’Africa, e con lei tutti i territori ancora in via di sviluppo, a fronteggiare la propaganda neocolonialista. E’ una questione su cui soffermarsi con attenzione. I conquistatori del ventunesimo secolo sparano di meno, ma pubblicano e condizionano forse di più. La falsa descrizione mediatica del ruolo dei tigrini nel Corno d’Africa del resto è l’ennesima lampante prova di come le grandi potenze economiche e militari quando non riescono con la forza si affidano alla propaganda, sapendo che quasi sempre le parole sono più letali delle armi. Il digitale poi ha amplificato queste potenzialità. Se l’Africa, come tutti i paesi meno sviluppati, fino al tempo della carta stampata riusciva a controllare e gestire i proprio media e l’impatto che questi producevano sulla vita politica e sociale del proprio paese, ora con il digitale è tutto finito.
Le coscienze dei popoli, le società, le strutture democratiche possono essere facilmente condizionate da campagne mediatiche digitali, spesso anonime. La falsa rappresentazione dei Tigrini è una storia emblematica che deve essere da monito, deve fare capire agli africani che quello dei media e della tecnologia sono settori dove è fondamentale strutturarsi. La stampa occidentale, quella in buona fede, dal canto suo deve tornare alla regola aurea del buon giornalismo, verificare prima di scrivere, avere fonti certe, non prestarsi alle speculazioni. La comunicazione digitale ha eliminato le barriere e avvicinato popoli e nazioni. Ma ha reso tutto più vulnerabile. La sfida prossima ventura è fare in modo che l’Africa trovi la sua autonomia e sia in grado di giocarsi alla pari questa nuova battaglia che l’attende. Il digitale, come direbbe il compagno Mao Zedong, “non è un pranzo di gala”.
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