Per comprendere da cosa derivi l’extraprofitto delle banche che il governo Meloni intende tassare si può fare un passo indietro e comprenderne la leggendo la relazione semestrale di Intesa San Paolo
di Emilia Morelli
“L’utile netto di per sé non significa nulla se non si porta con sé un impatto qualitativo diretto o indiretto sulla società. Come banca facciamo cose che non si sanno: nell’ultimo anno attraverso il profitto generato abbiamo supportato con farmaci e pasti 30 milioni di persone, le differenze si accentuano, bisogna dare indietro componenti importanti di quel profitto, per tenere insieme la società e fare entrare chi è in difficoltà in un circuito virtuoso”, è così che il responsabile della divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, Stefano Barrese, intervenendo al Meeting di Rimini ha commentato l’introduzione della tassa sugli extraprofitti voluta dal governo Meloni.
Per guardare da vicino la questione occorre fare un passo indietro e ricordarsi che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva paventato lo spauracchio di una tassa sugli extraprofitti delle banche, vale a dire un prelievo su presunti extraricavi, per poi fare un immediato dietrofront affermando che la mossa non era nell’agenda del governo. In quell’occasione l’unico banchiere che aveva strizzato l’occhio alla misura era stato proprio il numero uno di Intesa San Paolo, Carlo Messina, immaginando che il maggiore gettito sarebbe dovuto essere destinato alle fasce più bisognose.
Tuttavia, la misura introdotta dall’esecutivo Meloni va invece a punire le banche nella misura in cui il costo dei finanziamenti risulti innalzato rispetto alla remunerazione dei conti correnti. La tassa sugli extraprofitti colpisce, infatti, la forbice tra i tassi sui prestiti e quelli sui depositi che, ovviamente, risulta maggiorata a causa degli interventi della Bce che hanno portato ad un progressivo aumento dei tassi di interesse per tentare di contenere l’inflazione.
Ma ecco che, quando non si immaginava l’introduzione di una tassa del 40% sui maggiori ricavi realizzati dagli istituti grazie alle differenze tra tassi sui prestiti e tassi sui depositi e sui conti correnti, Intesa nella sua ultima relazione finanziaria aveva fornito uno scenario dettagliato della situazione.
Secondo quanto si legge nella semestrale di Intesa si apprende che “nella prima metà del 2023 è proseguita la trasmissione del rialzo dei tassi ufficiali a quelli bancari. I tassi sui nuovi prestiti alle società non finanziarie sono saliti di circa 1,3 punti percentuali da gennaio a maggio, portando l’aumento del tasso medio rispetto a fine 2021 a 3,6 punti percentuali. In termini di livello, i tassi applicati alle società non finanziarie sono tornati ai valori di fine 2008”.
Dunque, in concreto il costo dei nuovi prestiti “si è portato sopra il 5% e il tasso sulle operazioni di maggior dimensione è risultato pari al 4,5% a maggio” mentre per quanto riguarda i mutui “la prima metà del 2023 ha visto aumenti più intensi per il tasso variabile, mentre nel 2022 il rialzo aveva interessato in misura maggiore il tasso fisso. Il tasso variabile è salito da luglio 2022 di 3 punti percentuali, di cui la metà circa da inizio 2023, portandosi a maggio al 4,4%, il massimo da fine 2008. Il tasso fisso è aumentato meno da inizio 2023, segnando a maggio il 4,1 per cento”. Al contempo “si sono confermati più resistenti i tassi sui depositi, in particolare il tasso medio sui conti correnti, aumentato in misura marginale”. Più reattività è invece stata mostrata dai nuovi depositi con durata prestabilita, ossia i cosiddetti depositi vincolati dove occorre tenere fermo il denaro per un certo periodo di tempo. In questo caso, i tassi hanno fatto segnare una crescita “oltre il 3%, ai massimi da fine 2008”.
In generale, prosegue il documento, “la forbice tra tassi attivi e passivi ha registrato un incremento significativo salendo oltre il 3,2%, ai massimi da fine 2008”. Ed è proprio qui che si rinviene l’ormai noto extraprofitto. La stessa banca Intesa ha per il 2023 registrato un un differenziale tra interessi attivi e passivi pari a 3.584 milioni di euro, dato in crescita del 71,3% rispetto allo stesso periodo del 2022.
Questa situazione, però, è andata ad incidere direttamente sulle decisioni di famiglie ed imprese italiane che hanno visto progressivamente il valore dei conti correnti scendere e al contempo hanno deciso di investire in Btp e altri titoli di Stato alla ricerca di una qualche forma di remunerazione.
“Dopo una crescita robusta durata circa un decennio – spiega la semestrale della prima banca italiana – da febbraio anche i depositi delle famiglie hanno iniziato a segnare un calo, che fa seguito a quello registrato dai depositi delle imprese dal quarto trimestre 2022. L’andamento risente dei deflussi netti causati dall’utilizzo delle riserve di liquidità detenute sui conti correnti, come nel caso delle imprese, e dalla diversificazione dei risparmi verso i titoli governativi e le obbligazioni, alla luce dell’aumento dei rendimenti offerti”. La relazione finanziaria del gruppo guidato da Carlo Messina aggiunge che, “all’interno dell’aggregato dei depositi, al calo dei conti correnti si contrappongono afflussi verso i depositi a tempo, sia da parte delle famiglie sia delle imprese, attratte dalla maggiore remunerazione offerta dalle forme di risparmio vincolato”.
La relazione di Intesa spiega allora il contesto entro cui si muove la misura introdotta in piena estate dal governo Meloni e il malcontento mostrato dalle banche oltre che dagli stessi alleati di FI. E se Meloni da un lato si dice certa di non voler tornare indietro, dall’altro un invito al dialogo arriva proprio dal presidente della commissione Bilancio della Camera e deputato di Forza Italia, Giuseppe Mangialavori, che ha affermato: “Personalmente sono convinto che in sede parlamentare, attraverso il dialogo e il confronto sia tra le forze politiche sia con il sistema bancario, sapremo trovare la quadra migliore per tutti”.
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