di Stefano Beltrame
Le celebrazioni per i 700 anni di Dante, sono state un grande successo planetario. Forse è la prima volta che l’Italia, come Sistema Paese, riesce ad imporre una sua campagna di comunicazione all’attenzione del circo mediatico globale. Hanno giocato un ruolo la coralità, l’intensità e la frequenza con cui si è riproposto il messaggio, anche da parte delle nostre comunità che vivono all’estero. Per una volta, abbiamo fatto sistema e ne è uscita una chiara affermazione dell’orgoglio identitario della lingua italiana a fronte dello straripante predominio anglosassone e degli altri idiomi portati in auge dalla globalizzazione, come l’arabo ed il cinese. Dante è stato un’altra vittoria italiana di questo incredibile anno di grazia 2021, che ci ha portato la finale di Coppa America, la vittoria all’Eurofestival, alla Coppa Europa ed ai 100 metri alle Olimpiadi.
Un aiuto importante è venuto anche dalla tecnologia delle piattaforme social, che ci ha permesso ascoltare i “canti” della Divina Commedia, spezzettati in dosi omeopatiche, senza troppa fatica. Che Dante debba ringraziare internet non è intuitivo, ma la tecnologia ha permesso un ritorno ad una dimensione orale della poesia, da tempo perduta. Ha reso facilmente accessibile, comprensibile e godibile a tutti un’opera che, altrimenti, resta pur sempre molto difficile da leggere (ed da digerire) per conto proprio. Una sorta di ritorno tecnologico all’impostazione poetica originale. Nel ‘300, ben pochi sapevano leggere ed ancora meno potevano permettersi di comperare un libro. La poetica era quindi soprattutto recitata ed ascoltata insieme ad altre persone. Oggi diremmo che era molto più social.
Il successo di questa campagna dantesca si misura anche dal fatto che il valore culturale universale di questa nostra identità linguistica, personificata da Sommo Poeta, ci viene riconosciuto dagli altri. Nella letteratura universale, la Divina Commedia è considerata l’opera umana che meglio di ogni altra rappresenta l’epoca in cui fu scritta, cioè il ‘300. Dante descrive il ‘300 europeo, come Shakespeare rappresenta il ‘500. Su Wikipedia, una voce su Dante è presente in altre 179 lingue.
Dante Alighieri è quindi il padre della lingua italiana? No. Il vero padre non è lui.
Manzoni, riconoscendo la grandezza del fiorentino, diceva che la vera lingua italiana deve “lavare i panni in Arno”. Ripulirsi cioè dalle varie forme dialettali (nel suo caso lombarde) adottando il toscano come base grammaticale e lessicale di riferimento. Ma siamo già nell’’800, cioè alle battute finali di quello che gli studiosi chiamano la questione della lingua. Per risalire alla vera paternità dell’idioma di Dante occorre fare un flashbackindietro di 300 anni rispetto a Manzoni. Tornare a quel ‘500 in cui, all’alba del Rinascimento, qualcuno decise di “lavare i libri in Laguna” elevando l’italiano popolare toscano non solo al livello del latino, ma anche a quello del greco classico, dell’ebraico e di tutte le altre parlate del tempo.
La vera storia della nascita elettiva della lingua italiana, sullo sfondo glorioso di un Rinascimento in pieno svolgimento, è intrigante e piena di colpi di scena come la trama di un romanzo tascabile. La vicenda è ben nota agli specialisti del settore ed esiste una sconfinata letteratura in materia, ma non è affatto conosciuta dal grande pubblico. Dai ragazzi di oggi che scoprono il mondo su Istagram. Nel 2021, nel 700 anniversario di Dante, è una storia che merita di essere raccontata. Una narrazione di verità che vuole essere anch’essa un omaggio al Sommo Poeta, la cui grandezza non è certo per questo in discussione.
CHI E’ IL VERO PADRE DELLA LINGUA MADRE
L’italiano è (comprensibilmente, ma erroneamente) considerato la lingua di Dante per lo straordinario valore letterario, culturale e politico della Divina Commedia. Un’opera colossale, colta, raffinata e, soprattutto, scritta “in volgare” fiorentino. Non più in latino, ma in italiano, appunto. Dante è il padre della lingua italiana, quindi.
No. In verità, oggi non sembra proprio che Dante pensasse di imporre il fiorentino come lingua parlata unica per tutta l’Italia. Egli stesso, nel saggio sull’idioma parlato nella Penisola (De Vulgari eloquentia del 1305), repertoria ben 14 dialetti diversi. L’intento del Poeta sembra piuttosto quello di codificare un volgare – per così dire – aulico, che abbia la stessa dignità letteraria del latino.
A posteriori, la sua Commedia è tuttavia ascesa ad opera centrale ed identitaria dell’intera cultura italiana. Qualcosa di molto simile a quanto era accaduto in Persia con lo Shah-Nameh, il Libro dei Re, del poeta Firdusi. La statua di Firdusi guarda oggi i romani che entrano nel Parco di Villa Borghese dal lato della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Il poeta in Persia è un eroe nazionale perché la sua narrazione delle vicende degli antichi imperatori– sospesa tra storia e mito – è stata il baluardo su cui il Paese ha difeso la sua identità a fronte dell’invasione arabo-mussulmana.
L’attribuzione della paternità idiomatica deriva quindi probabilmente da questo, ma non è corretto. Indipendentemente dall’Alighieri, l’italiano si afferma, ad esempio, come lingua dell’opera lirica. E’ facile pensare che siano più numerose nel mondo le persone cha hanno ascoltato il don Giovanni di Mozart rispetto a quelle che hanno letto la Commedia.
Certamente con l’Unità d’Italia la Commedia è diventata una pietra angolare della formazione scolastica per generazioni di studenti che dovevano impararla a memoria. Oggi le cose sono cambiate ed il testo risulta arcaico e di difficile lettura. Nei volumi scolastici sono quasi più le note esplicative che il testo poetico in sé. Anche se pochi ormai l’hanno veramente letta, la Commedia resta comunque più che mai un’inesauribile miniera idiomatica da cui si estraggono (spesso inconsapevolmente) motti, rime e proverbi di consolidato uso popolare. Tutti, ma proprio tutti, gli italiani ne conoscono, ne citano o ne storpiano qualche frase ad effetto entrata ormai nel lessico comune: Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura che la retta via era perduta…Lasciate ogni speranza o voi che entrate…Non ti curar di loro, ma guarda e passa… Galeotto fu il libro e chi lo scrisse… Tu scoprirai com’è duro salir le scale altrui…Amor, che a nullo amato amar perdona…(citazione, quest’ultima, che si ritrova ancora oggi nelle canzoni pop come Serenata Rep di Lorenzo Jovanotti).
Ma torniamo alla paternità. Nessuno vuole sminuire l’importanza della Divina Commedia, ma il fatto è che nel ‘300 ben pochi italiani la conoscevano. Solo i più ricchi ed i più eruditi, cioè quelli che si potevano permettere di comperare dei libri, che erano allora ancora dei codici scritti a mano su pergamena. Degli oggetti assai ingombranti, molto rari e, soprattutto, carissimi. Su di un piano personale poi, nonostante il suo indiscusso genio poetico, Dante dovette scappare dalla sua Firenze per salvarsi la vita. Il Ghibellin fuggiasco (come lo chiamerà Ugo Foscolo) trovò salvezza ed asilo nella Verona di Cangrande della Scala, a Ferrara, Bologna, Padova e quant’altro.
Fu solo due secoli dopo, nel ‘500, che la diffusione del libro stampato ed alcune rivoluzionarie innovazioni tecnologiche permisero una grande diffusione – oggi diremmo di massa – delle sue opere, come anche quelle dei suoi contemporanei Petrarca e Boccaccio. I tre autori toscani scelti a tavolino da alcuni grandi “veneziani” per farne i campioni della lingua italiana.
PIETRO BEMBO, L’INVENZIONE DEL RINASCIMENTO E L’ELEZIONE DELLA LINGUA
Questa ricostruzione fattuale della paternità della lingua italiana è stata il filo conduttore di una bellissima mostra curata da Guido Beltramini del 2013: “Pietro Bembo e l’Invenzione del Rinascimento” (https://www.youtube.com/watch?v=BhhBLcM3WoY). La lingua di Dante non è nata a Firenze nel ‘300, ma a Venezia nel ‘500. Una chiara e deliberata scelta ideologica concretizzata e sostenuta da una campagna senza precedenti di diffusione di testi di facile accesso. Gli artefici principali di quella operazione combinata intellettual-commerciale furono Pietro Bembo ed Aldo Manuzio. Due eminenti figure del Rinascimento poco note al grande pubblico rispetto a personaggi quali Macchiavelli, Ariosto, Michelangelo, Tiziano o Raffaello. Essi meritano tuttavia certamente un posto migliore nella nostra narrativa identitaria e nella nostra coscienza collettiva di italiani.
Bembo era un nobile veneziano, grande letterato e vero uomo del Rinascimento. Amico di Ariosto, fu ritratto da Tiziano e da Raffaello. Per la sua grande cultura fu chiamato al servizio dei Papi diventando addirittura Cardinale (diacono). Amante segreto di Lucrezia Borgia, che gli inviava ciocche dei propri capelli nascoste nelle lettere d’amore (ritrovate nascoste nell’epistolario di lui, erano esposte in una delle teche più emozionanti della mostra del Beltramini). Come intellettuale, fu lui ad eleggere il toscano a modello ideale della lingua italiana a scapito dello stesso dialetto veneziano. Ne formalizzò la prima grammatica (Prose della volgar lingua del 1525) e curò per l’Editore Aldo Manuzio la pubblicazione delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Non si limitò quindi ad un lavoro intellettuale e teorico, ma contribuì attivamente alla diffusione di massa dei testi su cui si basava la sua scelta.
Manuzio era di origini laziali, ma si stabilì a Venezia, dove fondò (nel 1495) le mitiche Edizioni Aldine: la casa editrice più importante del suo secolo e contraddistinta con l’inconfondibile logo del delfino attorcigliato all’ancora.
Manuzio fu una sorta di Steve Jobs del XVI secolo. Rivoluzionò la scrittura inventandosi la punteggiatura ed il carattere corsivo (che ancora oggi in inglese si chiama italics), ma soprattutto escogitò il libro tascabile (ottenuto piegando in otto parti un foglio di carta da stampare). Come il fondatore di Apple sviluppò i personal computer e ne semplificò il linguaggio rendendo la rivoluzione informatica alla portata di tutti, così Manuzio, nel ‘500, pose le basi materiali per la diffusione pratica delle idee alla base del Rinascimento. Non a caso un secolo italiano. Il libro tascabile prodotto in serie fu, per l’epoca, una vera rivoluzione culturale e rese i libri effettivamente accessibili (per prezzo e dimensioni) a tutti.
UN ITALIANO DA PARLARE COME UN LIBRO STAMPATO
La stampa era stata inventata in Germania da Gutenberg nel ‘400, ma fu in Italia che la tecnica fu perfezionata e sviluppata fino a raggiungerne il primato mondiale. Se il grande tedesco aveva ideato la tecnica riproduttiva, Manuzio ha reinventato il libro e la scrittura. In tutta Italia, ma in particolare a Venezia, si pubblicavano allora più della metà dei volumi prodotti in Europa. Erano inizialmente riedizioni a stampa della Bibbia e dei classici greci, latini e bizantini da poco salvati in Laguna dalla caduta di Costantinopoli. I codici erano conservati nella storica Biblioteca Marciana, mentre le edizioni a stampa erano curate da grandi intellettuali, come lo stesso Bembo. Il primo libro pubblicato da Manuzio fu una grammatica greca, chiaro indice di quanto fosse allora forte a Venezia il desiderio di leggere i classici antichi in lingua originale. Sempre con la curatela del Bembo, produsse quindi le prime edizioni a stampa delle opere di: Aristotele, Platone, Omero, Virgilio, Sofocle, Eschilo, Strabone ecc. ecc.
L’editoria divenne presto un vero business fortemente favorito dalla stabilità politica, dalla relativa tolleranza religiosa e dall’elevatissimo livello culturale della Repubblica Serenissima. In quegli anni, ad esempio, gli ebrei furono confinati dalla Repubblica sull’isola del Ghetto. Oggi “ghetto”, in tutte le lingue, è sinonimo di segregazione e discriminazione, ma a quel tempo (si era precisamente nel 1516), gli ebrei venivano a stabilirsi in Laguna per avere salva la vita poiché cacciati e perseguitati dalla Spagna, dalla Germania e da praticamente tutti gli altri Paesi europei. A Venezia, del resto, fu stampato nel 1520 il primo Talmud in lingua ebraica. Un’opera che diede un contributo essenziale alla difesa dell’identità israelitica in quei tempi molto difficili. Sempre nella Serenissima, si stampavano già allora anche i testi identitari della diaspora armena.
Per promuovere la diffusione della cultura e dei libri stampati – nonché, pensando agli affari, ad allargare il mercato degli editori in concorrenza tra loro – si iniziarono a pubblicare fin da subito anche delle traduzioni in italiano (ed varie altre lingue) dei classici greci e latini, ma anche di testi latini più recenti. Tra questi ultimi, per iniziativa del vicentino Gian Giorgio Trissino, ci fu la traduzione in italiano di un’opera che Dante aveva scritto in latino e che era stata, fino ad allora, quasi totalmente dimenticata. Il De Vulgari Eloquentia appunto. Ovvero, in italiano, L’eloquenza in lingua volgare (edito nel 1529). Questa traduzione dantesca rilanciò il dibattito teorico sulla centralità del toscano come idioma di tutta l’Italia già avviato da Bembo e prepotentemente alimentato dalle preziose riproduzioni di Manuzio.
L’opera di Trissino (che sarà poi anche l’anfitrione di Andrea Palladio e del suo classico testo di architettura: I quattro libri) ebbe una grade rilevanza. Bembo, infatti, pur avendo curato la prima edizione a stampa di Dante (Le terze rime, del 1502), indicava a modello linguistico da seguire il Petrarca. E’ dunque Trissino a sostenere la centralità di Dante Alighieri e della sua Commedia nella costruzione della lingua italiana. Di ristampa in ristampa, l’opera si afferma. La consacrazione definitiva arriva nel 1555, quando al titolo della Commedia sarà aggiunto l’aggettivo ”Divina”.
Furono quindi Bembo e Manuzio a porre le condizioni ideologiche e materiali affinché il toscano fosse generalmente adottato come lingua italiana ed è quindi a loro che va attribuita questa paternità adottiva. Dante ne è stato il più grande interprete e resta fino ad oggi forse insuperato, ma il padre non è lui.
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